DENNIS OPPENHEIM
MATERIAL INTERCHANGE. OPERE 1968/1974
Dall'8 giugno al 20 novembre 2010
DENNIS OPPENHEIM
MATERIAL INTERCHANGE. OPERE 1968/1974
Dall'8 giugno al 20 novembre 2010
Testo
Galleria Fumagalli inaugura “Material Interchange”, la prima personale dedicata a Dennis Oppenheim negli spazi della galleria. L’artista, uno dei più acuti sperimentatori del dopoguerra, si è distinto come protagonista di movimenti storici come la Land Art, la Body Art, L’Arte Ambientale e la Public Art. La mostra a cura di Alberto Fiz, presenta una serie di opere storiche, fondamentali nel percorso di Dennis Oppenheim, che appartengono al periodo compreso tra il 1968 e il 1974. In quegli anni l’artista lega il suo nome a quello di Bruce Nauman, Robert Smithson, Michael Heizer, Vito Acconci e Robert Morris, contribuendo a modificare radicalmente il linguaggio artistico del Novecento. Oppenheim ha fatto della dematerializzazione uno dei motivi fondamentali della sua indagine caratterizzata da continue e imprevedibili metamorfosi. La mostra occupa i due piani della galleria nella quale lo spettatore viene accolto da una straordinaria installazione del 1974 formata da 30 marionette in movimento di circa quaranta centimetri, mai esposta prima d’ora in Italia, dal titolo Theme for a Major Hit. Le motivazioni del fare arte sono sottolineate da un motivetto canoro scritto dallo stesso Oppenheim che recita: “Non è quello che fai, è quello che ti spinge a farlo”.
Come afferma Alberto Fiz: «È un lavoro di particolare significato in cui la disseminazione dell’io passa attraverso i suoi surrogati autobiografici sviluppandone un progressivo allontanamento». Non è una performance ma un’anti-performance in cui le marionette simulano i movimenti dell’artista. In un altro dei lavori esposti, sempre del 1974, Attempt to Raise Hell, la “marionetta Oppenheim” viene colpita da una campana di bronzo ogni sessanta secondi producendo un forte rumore che invade l’intero ambiente. Le due installazioni dialogano con una serie di opere emblematiche appartenenti al periodo della Body Art e della Land Art. Tra esse Annual Rings, del 1968, un grande lavoro fotografico derivante da un intervento site-specific con gli anelli annuali che tagliano il confine politico tra Usa e Canada. Un lavoro che si pone come attraversamento di due realtà e allo stesso tempo integra l’elemento spaziale con quello temporale. È del 1969 un’altra grande installazione lunga dieci metri, 220 Yard Dash, dove i passi rifrangono il loro suono sulle zolle di terra disposte una sopra l’altra condensando l’energia in un lavoro che si avvicina poeticamente all’arte povera. Come afferma Oppenheim «la Land Art sembra impadronirsi di nascosto del mio corpo. Il corpo appariva come un’area vitale, feconda di possibilità».
Così l’ingresso nella Body Art è quasi naturale e la mostra documenta questa fase con una serie di lavori di primaria importanza come Parallel Stress dove il corpo, nel suo massimo sforzo fisico, appare come lo strumento per misurare il mondo esterno oltre che punto d’intersezione tra luoghi differenti. Ancora una volta per Oppenheim non contano le cose in sé ma il loro attraversamento. «Il mio lavoro» afferma «non è né mentale né visivo ma sta da qualche parte in mezzo». In mostra anche l’installazione Stills for Gingerbread Man (1970-71), formata da tre micro-proiettori, che affronta ironicamente il tema del processo digestivo. In un metaforico atto di cannibalismo l’artista mangia lentamente una serie di elementi dalle forme umane che diventano parte del suo sostentamento. L’ipotesi rigenerativa e la continua metamorfosi all’interno di un universo precario e instabile sono alla base dell’indagine che Oppenheim affronta a partire dagli anni Settanta, e che proseguirà anche nei decenni successivi quando diventerà più evidente il rapporto con l’architettura. «Quello che conta non è quello che fai ma quello che ti spinge a farlo», come recitano le sue marionette. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Silvana Editoriale con un saggio di Alberto Fiz.
Testo
Galleria Fumagalli inaugura “Material Interchange”, la prima personale dedicata a Dennis Oppenheim negli spazi della galleria. L’artista, uno dei più acuti sperimentatori del dopoguerra, si è distinto come protagonista di movimenti storici come la Land Art, la Body Art, L’Arte Ambientale e la Public Art. La mostra a cura di Alberto Fiz, presenta una serie di opere storiche, fondamentali nel percorso di Dennis Oppenheim, che appartengono al periodo compreso tra il 1968 e il 1974. In quegli anni l’artista lega il suo nome a quello di Bruce Nauman, Robert Smithson, Michael Heizer, Vito Acconci e Robert Morris, contribuendo a modificare radicalmente il linguaggio artistico del Novecento. Oppenheim ha fatto della dematerializzazione uno dei motivi fondamentali della sua indagine caratterizzata da continue e imprevedibili metamorfosi. La mostra occupa i due piani della galleria nella quale lo spettatore viene accolto da una straordinaria installazione del 1974 formata da 30 marionette in movimento di circa quaranta centimetri, mai esposta prima d’ora in Italia, dal titolo Theme for a Major Hit. Le motivazioni del fare arte sono sottolineate da un motivetto canoro scritto dallo stesso Oppenheim che recita: “Non è quello che fai, è quello che ti spinge a farlo”.
Come afferma Alberto Fiz: «È un lavoro di particolare significato in cui la disseminazione dell’io passa attraverso i suoi surrogati autobiografici sviluppandone un progressivo allontanamento». Non è una performance ma un’anti-performance in cui le marionette simulano i movimenti dell’artista. In un altro dei lavori esposti, sempre del 1974, Attempt to Raise Hell, la “marionetta Oppenheim” viene colpita da una campana di bronzo ogni sessanta secondi producendo un forte rumore che invade l’intero ambiente. Le due installazioni dialogano con una serie di opere emblematiche appartenenti al periodo della Body Art e della Land Art. Tra esse Annual Rings, del 1968, un grande lavoro fotografico derivante da un intervento site-specific con gli anelli annuali che tagliano il confine politico tra Usa e Canada. Un lavoro che si pone come attraversamento di due realtà e allo stesso tempo integra l’elemento spaziale con quello temporale. È del 1969 un’altra grande installazione lunga dieci metri, 220 Yard Dash, dove i passi rifrangono il loro suono sulle zolle di terra disposte una sopra l’altra condensando l’energia in un lavoro che si avvicina poeticamente all’arte povera. Come afferma Oppenheim «la Land Art sembra impadronirsi di nascosto del mio corpo. Il corpo appariva come un’area vitale, feconda di possibilità».
Così l’ingresso nella Body Art è quasi naturale e la mostra documenta questa fase con una serie di lavori di primaria importanza come Parallel Stress dove il corpo, nel suo massimo sforzo fisico, appare come lo strumento per misurare il mondo esterno oltre che punto d’intersezione tra luoghi differenti. Ancora una volta per Oppenheim non contano le cose in sé ma il loro attraversamento. «Il mio lavoro» afferma «non è né mentale né visivo ma sta da qualche parte in mezzo». In mostra anche l’installazione Stills for Gingerbread Man (1970-71), formata da tre micro-proiettori, che affronta ironicamente il tema del processo digestivo. In un metaforico atto di cannibalismo l’artista mangia lentamente una serie di elementi dalle forme umane che diventano parte del suo sostentamento. L’ipotesi rigenerativa e la continua metamorfosi all’interno di un universo precario e instabile sono alla base dell’indagine che Oppenheim affronta a partire dagli anni Settanta, e che proseguirà anche nei decenni successivi quando diventerà più evidente il rapporto con l’architettura. «Quello che conta non è quello che fai ma quello che ti spinge a farlo», come recitano le sue marionette. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Silvana Editoriale con un saggio di Alberto Fiz.
Vedute
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